Cronaca seria di una rivista satirica
Sarebbe bello e utile fare una breve panoramica sul clima della Roma
letteraria del dopoguerra. Già nei decenni precedenti, infatti, si
lamentava nella capitale l'assenza di un centro; i letterati vivevano
isolati ciascuno nel proprio quartiere: "squallido mondo, quello delle
lettere nella Roma principio di secolo".
"Città sorda e
distratta" è definita Roma in un libro di Arnaldo Frateili del 1963 -
Dall'Aragno al Rosati -, secondo lui destinata a non divenire mai una
vera città letteraria : " i grandi editori, le riviste che contano,
sono tutti altrove; gli interessi veri e profondi di Roma non sono per
la letteratura; vanno a cose più pratiche e soprattutto redditizie."
Dunque, andrebbe fatto un censimento, per non cadere in errore; ma, in
effetti, all'infuori della famosa terza saletta dell'Aragno - quella
degli "Amici al caffè" di Amerigo Bartoli - si trovava ben poco.
Negli anni cinquanta c'erano i tavolini di Canova e Rosati; via
Veneto e piazza del Popolo erano l'asse di riferimento, ci si spostava
dall'uno all'altra, magari con una vaga insoddisfazione. A quei tempi
gli scrittori, anche i più poveri, abitavano in centro, al contrario di
oggi, in cui tendono più facilmente a isolarsi in ritiri di campagna o
in paesi più accoglienti e rassicuranti della metropoli. In questi
ultimi trent'anni i caffè letterari sono diventati oggetto di
competenza "archeologica", e perchè la loro assenza appaia così
definitiva mi pare, se non altro, un argomento che merita un
approfondimento storico oltre che di costume. Va detto che negli anni
'50, così come in tutto il '900, i caffè, i luoghi di conversazione, i
salotti letterari e le redazioni dei giornali contarono per la
letteratura quanto le riviste e i fogli letterari. Molto era lasciato
all'improvvisazione, ma c'era anche un'intensità in quel modo di
incontrarsi, a dimostrare quella che era una necessità: ritrovarsi,
avere un riferimento comune, poter dire. Vicari raccontava spesso delle
ore interminabili trascorse con gli altri scrittori ai bar di Piazza
del Popolo e Via Veneto : i pettegolezzi , gli scherzi, le passeggiate
notturne. E sicuramente le ricordava con nostalgia. Dopo gli anni, a
suo parere del_eteri, dell'impegno a tutti costi, quella capacità di
trovare a fine giornata del tempo da trascorrere insieme, anche
affettuosamente e divertendosi, gli appariva preziosissima.
A quei tempi si riusciva ancora a giocare: come la volta in cui Vicari
e amici bandirono un premio letterario per "un raccontino di dieci
righe dall'effetto fulminante", che fu preso sul serio da molti
scrittori, quand'era invece soltanto una divertita provocazione. Anche
scherzando si riusciva a lanciare qualche frecciata all'establishment
letterario.
"il Caffè" nacque, nel Marzo 1953, ai tavolini del bar Rosati. Vicari
racconti la vicenda, in un articolo di qualche anno dopo: "Un giorno
radioso del maggio 1953 scesi in via Veneto in cerca di amici... Non
cercavo un amico qualsiasi, ma quell'amico; per l'esattezza Giorgio
Prosperi, che non da quel giorno sentivo affine, e che stimo molto da
sempre... Mi sedetti a un tavolino di Rosati; accanto a me c'era Sergio
Zavoli, uno dei migliori radioreporter, anzi uno dei pochi veramente
bravi. Gli anticipai ciò che tenevo in serbo per Prosperi: si dovrebbe
fare un giornale che dica la verità su tutto e su tutti, senza paura.
Dovremo pagarcelo noi, non è possibile accettare niente da nessuno.
Zavoli sussultò. << E' il mio sogno>> disse. Pochi minuti
dopo, Prosperi era accanto a me. Così nacque il Caffè." E da quel
giorno Vicari cominciò a pagarsi il suo "Caffè" quotidiano.
All'inizio si chiamava "Venerdì il Caffè" e Vicari, allora redattore
alla "Settimana Incom" si firmava con lo pseudonimo Romeo G.Giardini. I
numeri iniziali - solo tre nel primo anno- erano l'esatta trasposizione
tipografica della classica vita da caffè: chiacchere, note letterarie,
polemiche, senso di libertà. Va detto che in quegli anni molti
scrittori venivano dalla provincia e vivevano un po' da esiliati; il
caffè era il luogo per sconfiggere l'isolamento.E là, proprio per
questa situazione estrema, credo che tutto si vivificasse : sentimenti,
teorie, progetti, battaglie.
"Il Caffè" di Vicari nacque con premesse lievi: toni scherzosi e
disimpegnati, senza un vero terreno da coltivare, se non la voglia di
vincere la noia, la tetraggine e la malinconia che secondo Vicari si
era depositata pesantemente su tutta la letteratura degli ultimi anni.
Fu Italo Calvino, da subito amico e collaboratore della rivista, che
dichiarò che andava corretto il tiro: in una lettera del '53 a Vicari
scrisse che "il Caffè" era "un simpaticissimo foglio umoristico
polemico", ma che pur conservando spregiudicatezza e spirito avrebbe
dovuto trovare "tutt'altri interessi e impegni".
Sarebbe interessante cominciare a entrare nella storia del "Caffè"
anche dalle porte di servizio: più che i testi pubblicati, letti e
riconosciuti, quelle carte - lettere, comunicazioni, polemiche- che
finirono spesso anche nei cestini, delle quali si è salvato qualcosa,
però, per una cura particolare di Vicari, e ora garantite dell'Archivio
che le raccoglie.
Per le porte del "Caffè" entrarono e uscirono scrittori grandissimi
italiani e stranieri, e scrittori meno grandi, ma che avevano un vero
attaccamento filiale alla rivista e al suo direttore. Tutti , tra loro,
diversissimi, ma con la medesima possibilità di scrivere in uno spazio
sciolto dalle regole del sistema letterario, e per questo tanto libero
quanto precario. E si può dire da subito che nel Caffè" non si rischiò
mai che si facesse "conversation anglaise", che ä esattamente quella
tra due persone che stanno sedute vicine senza proferire parola o
anche, in un'immaginaria ma forse pertinente trasposizione, la stampa
di articoli tra i quali non ci sia la benché minima comunicazione. E'
così che muore una rivista, per diventare, al massimo, antologia.
Le conversazioni che si aprivano al "Caffè" di Vicari spesso
s'interrompevano bruscamente, perché mancavano i finanziamenti,
l'editore, il distributore. Poi, tutto ripartiva; spesso, con grandi
entusiasmi.
Tra i primi amici del "Caffè" ci furono Emanuelli, Flaiano, Sciascia,
Tobino, Rea, Prisco, Pomilio, Bassani , Pasolini, Parise e molti altri.
Nei primi anni si tratto più che altro di un giornale che si occupava
di attualità e costume, oltre che di letteratura, quasi un rotocalco.
Fu nel '56 che divenne una vera e propria rivista, adottando una veste
tipografica nuova, che Vicari scelse con i suggerimenti di Flaiano:
un'impaginazione raccolta, con caratteri semplici, stampata in maniera
classica e raffinata.
Il lavoro della rivista si rivolse a un ambito più ristretto e
specifico."il Caffè", in quell'anno, individuò il suo 'stile'. E
dichiarò la scelta ai suoi lettori con un documento che non si vuole
paragonare ai manifesti d'avanguardia, ma che certamente conteneva
degli impulsi anche radicali:
" il Caffè" aspira a mantenere vivo il ricambio degli schemi
d'associazione estetica e a reagire all'usura non soltanto delle
formule, ma anche e soprattutto dei materiali che ogni epoca
insistentemente predilige ... La via scelta ä quindi quella d'uno
sperimentalismo conscio della sua continua provvisorietà, della sua
funzione relativa ... E sia chiaro che l'artificio deve restare un
momento iniziale: come l'avvio d'officina... Pensiamo a una verità in
movimento, che la letteratura deve sempre includere come una
profezia... Sollecitiamo un continuo tentativo d'aggiornamento della
parola che si atteggi in simboli continuamente imprevisti... Perciò
diffidiamo soprattutto del moralismo diretto, del patetico esplicito,
del lirismo, che automatizzano l'ispirazione e preferiamo genericamente
indicare l'ironia, la comicità, la parodia, il grottesco, la ricerca
dell'eccentrico - cioè le deformazioni: e non le più facili- come i più
fecondi stimoli, per lo meno come i mediatori per giungere a
significati e a prospettive perennemente nuovi -Pagina quarantotto, "il
Caffè ", 7, 1957-.
Fu quella una dichiarazione di vitalità estrema, che rispondeva alla
constatazione di fondo che un certo mondo era finito. L'editoria
faticava a sostenere riviste letterarie poco remunerative, e si faceva
sedurre da giornali che garantissero un ritorno immediato.Le riviste di
gruppo morivano e lo scrittore si stava trasformando in fornitore di
pubblici servizi. La pura letteratura, le iniziative collegiali stavano
diventando "lussi impossibili e superflui". La scelta anticonformista
del "Caffè" fu la rivendicazione della totale libertà letteraria e
artistica, nel fastidio per la piattezza e l'utilitarismo di molta
parte di critici e scrittori. Bisognava rivalutare i veri umoristi, e
da quell'anno "il Caffè" cominciò a ospitare Gadda, Delfini,
Palazzeschi, Buzzati, Calvino, Rodari, Char, Quenau, Tardieu, Chros,
Aub, Adamov, Morgenstern e i testi del passato -Carrol, Swift, Dossi,
Immanuel Romano, fino a Rabelais-. Tutti, in qualche modo dissidenti,
eccentrici - esiliati potremmo dire - che, nel "Caffè" di Vicari ,
trovarono un'apertura senza riserve.
Il tentativo della rivista era di creare uno scambio assiduo con alcuni
dei settori più vivi della letteratura straniera.Scrisse Vicari nel
1960: "Siamo sicuri che sia più che necessario ampliare quel colloquio
tra noi italiani e coloro i quali, all'estero, operano nel nostro
campo, che, nonostante l'europeismo ufficiale, la distensione, stenta a
mettersi in moto, ridotto più che altro a un cerimoniale di squallida
inutilità" .
Gli anni '60 del "Caffè" furono i più ricchi, per la varietà dei testi
creativi -spesso sostenuti da un approfondimento critico- e per
l'aprirsi di strade inconsuete nel panorama letterario italiano: la
Patafisica, il Lettrismo, l'Oulipo. Anche il Gruppo '63 pubblicò molto
sul "Caffè" - Sanguineti, Pagliarani, Balestrini-.
Anceschi e Vicari furono amici e spesso avviarono progetti comuni
-convegni sul linguaggio e sulle avanguardie-. Ma su quell'ultima
avanguardia Vicari era scettico: credeva comunque che allo scrittore
spettasse il compito o il diritto di fare gesti letterari privati. E
dunque non vedeva di buon occhio quei giovani letterati che intendevano
mettersi alla guida, ad es, dei movimenti studenteschi, passando con un
improvviso colpo di timone, dalla teoria alla prassi.
Gli sembrava che si stesse formando una nuova cultura ufficializzata,
ben sistemata in una zona di potere, non più in grado di avviare alcun
progetto per una società del futuro, che secondo lui era tra le
funzioni a disposizione dell'artista: "il gruppo, costituito da un
'elite di scrittori, aveva cominciato agendo proprio sul linguaggio per
rinnovare le forme comunicative. E a forza di pestarle nel mortaio, vi
si sono coagulate come maionese".
Ma "il Caffè" conservava anche la dimensione più casalinga, quella
degli incontri e scontri che si giocavano tutti nella casa romana di
Vicari, in via della Croce, sede anche della redazione. Là arrivavano
Alberto Arbasino, Gaio Fratini, Luigi Malerba, Augusto Frassineti,
Giorgio Manganelli, Piero Chiara , Saverio Vòllaro, Pier Paolo Pasolini
e i tanti redattori.
Ne rimane traccia nel Gazzettino del "Caffè", le pagine finali di ogni
numero dedicate a polemiche, note spiritose, prove in sordina, dove
Vicari si travestiva da R.G.Giardini e si divertiva, in immaginarie
sfide a duello, a insinuarsi tra i redattori e il tipografo, immettendo
nella rivista i testi più contaminati,in modo da esorcizzare il
manierismo e poter "sfiorare l'Orrido" . Cosicché nel " Caffè" il
Meglio e il Peggio si mescolavano. E in quegli anni '60 -precisamente
nel '63-, al "Caffè" capitava di sentire anche battute di questo
genere:" Grave tensione al caffè Paszkowsky a Firenze a seguito dello
spostamento dell'asse letterario italiano dalle rive dell'Arno - a
quanto sembra a Palermo-. Oppure: " Gli scrittori romani in vista delle
prime nebbie, si trasferiranno in massa dal Rosati di Piazza del Popolo
- quota 1,33- al Rosati di via Veneto -quota 133-". Così si rispettava
anche quella tradizione della battuta nella quale erano maestri- in
quegli anni - Maccari, Longanesi, Flaiano. Molte riunioni cominciavano
per discutere del nuovo numero e finivano poi a cena da Cesaretto, la
fiaschetteria Beltrame, che era proprio davanti a casa di Vicari, da
non dimenticare in una futura mappa dei luoghi letterari, insieme al
Bar Roma, all'angolo con via del Corso , dove Vicari, molto mattiniero,
iniziava la sua giornata.
Il vero lavoro si svolgeva dentro casa. ì Giambattista Vicari per
venticinque anni, con vocazione d'artigiano, scrisse e ricevette
lettere, scelse i testi e i disegni -Folon, Maccari, Zannino, Guelfo,
Cardon, Topor-, montò i numeri da consegnare al tipografo. Le copertine
e i formati ogni tanto cambiavano, così come gli editori; ma in effetti
con Vicari gli amici del "Caffè" rimanevano fino all'ultimo.E in questa
breve indagine è sorprendente constatare come "il Caffè"- rivista
divenisse anche luogo reale, con garanzia di senso d'appartenenza.E per
questo forte legame capitava, per citare un esempio tra i più
affascinanti, che Calvino inviasse sempre a Vicari i suoi testi, da
pubblicare in anteprima - Marcovaldo, Le Cosmicomiche, Il Castello dei
destini incrociati, Il Piccolo Sillabario Illustrato-.
E lo stesso accadde con il grande esiliato Delfini, del quale
"il Caffé" pubblicò innumerevoli poesie -Le poesie della fine del
mondo- e le cronache dell'Accademia degli Informi. Il suo fastidio nei
confronti della società letteraria espresso in quelle cronache era in
piena sintonia con lo spirito del "Caffè" : " In questa temperie di
glorie fabbricate dal mattino alla sera, di professionismo dei neonati,
di quotazione mercantile delle idee ricevute, il fine abbastanza
settario dell'Accademia mira a restituire al caos il peccato originario
della poesia".
Ma i problemi pratici non consentivano a Vicari di
occuparsi serenamente della rivista: "sto definitivamente tirando le
somme. I conti non tornano. La fatica materiale per tenere in piedi la
baracca del "Caffè" è immane - scriveva nel '72.E questo accadeva
nonostante che moltissime collaborazioni fossero offerte
gratuitamente."La verità ä che le riviste letterarie non hanno un
pubblico, nè largo n’è lungo. Hanno e hanno sempre avuto, lettori
selezionatissimi.Tanto è vero che più sono specializzate più lettori
hanno....Il potere politico appoggia soltanto le iniziative che possono
essere strumentali, utili ai propri fini". Eppure, la rivista continuò
a uscire fino al '77, per venticinque anni. Non si trattò, credo, di un
accanimento terapeutico, ma del tentativo continuo di aggiornamento.
Sul n. 1 del 1970 troviamo il secondo - e ultimo- editoriale-manifesto:
"Perché facciamo tanto insistentemente una rivista? Perché è il luogo
dove alcuni uomini di cultura possono compiere la verifica di un
dialogo e di un'esperienza condotti in comune e in pubblico. Come si fa
una rivista? Dibattendo di continuo le idee nostre e altrui e tentando
di offrire al dibattito pezze d'appoggio. E' difficile .... L'arte è
ricambio perpetuo. ... Non aver paura di apparire giullari. L'irrisione
continua impedire al sistema di riassorbirci. Bisogna togliergli la
parola ed ä fatta, bisogna obbligarlo a servirsi del nuovo linguaggio.
Sarà lui ad essere riassorbito e capovolto." L'irrisione ,
l'eccentrico, il grottesco sembrano diventare così degli strumenti di
battaglia. "il Caffè" e il suo direttore, anch'essi esiliati - da
critici e giornalisti- in un terreno di lieve quanto inefficace
eleganza, cercarono comunque senza sosta, di difendersi
dall'integrazione, di ridare spazio alla molteplicità delle idee.
"Distruggere di continuo ä il solo modo di rinnovare, per riaprire il
genuino processo vitale. Le idee sono buone una volta sola, poi sono
sempre da buttare" - scriveva Vicari. Appare così la forma scomoda del
"Caffè": quel sottile flusso di spregiudicatezza voleva servire a
ripristinare nuove correnti d'aria in un sistema letterario asfittico.
E la mutevolezza della rivista, da molti criticata per l'assenza di una
poetica precisa, potrebbe essere interpretata come un nuovo registro di
libertà dai luoghi comuni.
Ma quanto le intenzioni abbiano
prodotto a livello letterario non si può dire in poche righe;
certamente, in questa anarchica poetica della "stravaganza" va
riconosciuta alla rivista la capacità di individuare e raccogliere nomi
e consonanze prima degli altri, ospitando negli anni una moltitudine di
"irregolari".Così, con Dossi e Celine , Bianciardi e Queneau, Bartolini
e Wilcock, Carrol e Delfini, diversissimi tra loro, ma spiriti liberi,
ci si poteva trovare al "Caffè" di Via della Croce, in buona compagnia.
*
Intervento di Anna Busetto Vicari al
CONVEGNO INTERNAZIONALE
Movimenti, incontri, caffè letterari
nel passaggio dal XIX al XX secolo in Europa,
dal simbolismo alle avanguardie storiche
COMO
5-7 NOVEMBRE 1999
XXXIII FESTIVAL AUTUNNO MUSICALE A COMO
Institut Mémoires de l’Edition Contemporaine
Fondation Erik Satie di Parigi
Museu del Joguet de Catalunya di Figueras
Archivio e Centro Studi il Caffè di Giambattista Vicari